Alessia Pifferi, perché ha fatto morire la figlia: le motivazioni dell'ergastolo
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Alessia Pifferi, shock: perché ha fatto morire davvero la piccola Diana

mani di donna in una culla

Dopo l’ergastolo ad Alessia Pifferi per l’uccisione della figlia Diana sono arrivate le drammatiche motivazioni ufficiali della condanna.

Il caso di Alessia Pifferi, la donna che ha lasciato morire di stenti sua figlia Diana, torna a far discutere. In queste ore, infatti, sono arrivate le motivazioni della condanna all’ergastolo da lei subita. I giudici della Corte d’Assise di Milano che hanno pronunciato la sentenza dello scorso 13 maggio hanno ora reso noto il perché della loro decisione.

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aula di tribunale

Alessia Pifferi, perché ha lasciato morire di stenti la figlia

Il caso di Alessia Pifferi e della piccola figlia Diana, lasciata morire di stenti e trovata senza vita il 20 luglio 2022 in un lettino da campeggio, con a fianco solo un biberon e una bottiglietta d’acqua vuoti, arriva ad un altro punto cruciale: le motivazioni della condanna all’ergastolo. I giudici della Corte d’Assise di Milano, infatti, hanno reso note le motivazioni della sentenza arrivata lo scorso 13 maggio.

Secondo quanto si legge, la donna è stata animata da un “futile ed egoistico movente”, ossia “regalarsi un proprio spazio di autonomia, nella specie “un lungo fine settimana con il proprio compagno“, “rispetto al prioritario diritto/dovere di accudire la figlioletta” di un anno e mezzo. Tra gli altri dettagli a sostegno della condanna e delle motivazioni quanto trovato nell’appartamento. Per dare un’idea della situazione, nel frigorifero e nella dispensa non c’è stato nessun segno di pappe e di altri “alimenti per bambini”, mentre in sala, in un borsone e in un trolley, sono stati trovati molti abiti, di cui molti da sera.

Il comportamento dell’imputata

Per i giudici che hanno stabilito la condanna all’ergastolo, la Pifferi ha commesso un reato di “elevatissima gravità, non solo giuridica, ma anche umana e sociale”. A rendere la situazione ancora più tremenda, il comportamento tenuto dalla donna in aula: un atteggiamento caratterizzato da “deresponsabilizzazione”, accampando “circostanze oggettivamente e scientemente false”, accusando il compagno di “essere stato l’artefice ‘morale’ dell’accaduto”. Sintomi di una “carente rielaborazione critica”.

Tra le motivazioni della sentenza si può anche leggere: “Non perdeva occasione l’imputata, nel corso del suo esame dibattimentale, per sottolineare come lui non accettasse la presenza di Diana e come la bambina per lui fosse ‘un intralcio’, come proprio a seguito di un litigio con l’uomo, che l’aveva anche intimorita, avesse desistito dal proposito di rientrare a casa lunedì 18 luglio”.

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ultimo aggiornamento: 9 Agosto 2024 14:23

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