“La Commissione Europea e il Digital Services Act: Chi mal comincia è già a metà dell’opera”.
Chi mal comincia è già a metà dell’opera. La regola aurea della Commissione europea ben si addice agli sforzi della Commissione Europea per tenere “sotto controllo” i contenuti dei social media e gli abusi delle grandi aziende tecnologiche mondiali: la prima applicazione del Digital Services Act, entrato in vigore alla fine di agosto, sembra confermare infatti tutte le preoccupazioni degli esperti (e delle stesse aziende hi-tech) sul rischio di censure di carattere politico e di violazioni della libertà di espressione da parte della Commissione europea nell’applicazione delle norme anti fake-news.
Più passano i giorni, più appare chiaro che l’attacco del Commissario al mercato interno Henry Breton contro i piu’ importanti social network del mondo – da X a Facebook fino a Tik Tok – per le presunte violazioni del Digital Services Act nella gestione del flusso di informazioni (video e altri contenuti) della guerra in Medio Oriente, rappresenti soltanto una dimostrazione di forza “politica” generica, superficiale e non sostanziata dai fatti.
Come ha scritto in un un editoriale l’analista Dave Lee di Bloomberg, “Breton ha rapidamente confermato i timori dei critici secondo cui la legge sarebbe stata utilizzata per avanzare richieste opache alle piattaforme tecnologiche”.
Qui non si tratta di difendere Elon Musk, Facebook o Instagram di Mark Zuckerberg, o di essere solidali nei confronti di TikTok di Shou Zi Chew: i big dei social media non sono irreprensibili e sanno già difendersi bene da soli delle critiche.
Il problema è il timing dell’attacco di Breton, la forma e soprattutto i bersagli del Commissario, quando ha inviato lettere aperte a tutti e tre i capi-azienda, pubblicandole sui rispettivi social media prima di inviarle alle aziende. Le lettere concedevano a ciascun social media 24 ore per rispondere alle preoccupazioni della commissione, sottolineando che il mancato rispetto della DSA comporta pesanti sanzioni, fino al 6% delle entrate annuali globali. All’interno delle aziende, le lettere sono state interpretate non solo come una minaccia, ma come un’indicazione che avevano agito in modo improprio: ma ancora non è chiaro esattamente come.
Le lettere erano “esattamente ciò che temevamo sarebbe accaduto se avessimo conferito poteri esecutivi a una commissione politica: usare la minaccia dei poteri di cui dispone per far sì che le piattaforme facciano cose che non sono effettivamente obbligate a fare”, ha commentato su Wired Jen Penfrat, analista del think tank sui diritti digitali EDRi di Bruxelles.
Nella sua lettera a Musk, Breton ha affermato che ci sono state “indicazioni” di “contenuti illegali e disinformazione” diffusi sulla piattaforma, sostenendo che su X circolavano contenuti “potenzialmente” illegali “nonostante le segnalazioni delle autorità competenti”. Da parte sua, Musk ha risposto per le rime:
“Mi spieghi di quali violazioni sta parlando, si vous plais”. Lesa maestà: Breton ha detto non solo che Musk deve “mantenere la parola”, ma ha addirittura replicato nel dettaglio all’imprenditore sudafricano non su X, ma sul social BlueSky, concorrente di X.
Più che un colpo basso, sembra un colpo di pubblicità: Breton sembra fare di tutto per alimentare il dubbio che stia usando le nuove leggi, e la pubblicità che le circonda, per amplificare il proprio prestigio politico. È interessante notare che, sebbene la questione fosse considerata abbastanza urgente da richiedere risposte entro 24 ore, la commissione ha scelto di inviare le tre lettere in giorni consecutivi separati, generando cicli di notizie nuove ad ogni turno. Se la crisi è così grave, non sarebbe stato prudente che la commissione inviasse immediatamente tutte le lettere? Non solo.
Se il problema di Breton sono le fake news dal Medio Oriente e la propaganda di Hamas sui social, non si spiega perché il Commissario europeo non abbia chiamato in causa anche Telegram, l’app su cui gran parte del materiale della guerra tra Israele e Hamas viene prima pubblicato e poi diffuso altrove. Insondabilmente, Telegram – certo, meno che un nome familiare – non è stata designata dalla commissione come una delle piattaforme online molto grandi ai sensi del DSA, ed è quindi apparentemente fuori dai guai. In retrospettiva, è quanto meno sconcertante. Infine, non è assolutamente chiaro quali siano
le “autorità competenti”, come ha scritto Breton nella sua lettera, ad aver lanciato l’allarme sulla manipolazione informativa dei social network. Secondo Digital Act, infatti, la principale fonte di vigilanza sugi abusi delle aziende hi-tech è la Europol, il braccio investigativo delle forze dell’ordine dell’Ue, che nel 2015 ha creato la sua Internet Referral Unit appositamente per svolgere questo compito di presidio e polizia digitale. Ma nella sua risposta alla lettera di Breton, l’amministratore delegato di X Linda Yaccarino ha affermato che la società non ha ricevuto alcuna segnalazione dall’IRU relativa alla guerra Israele-Hamas.
Alcune ore dopo aver ricevuto la risposta di X alla sua lettera, la commissione ha annunciato di aver presentato una nuova, lunga lista di richieste e spiegazioni al social di Elon Musk, a cui ha dato una settimana per rispondere. Ancora una volta, sembra una pretesa fatta apposta solo per conquistare le prime pagine dei giornali.
Prima dell’adozione del digital service act, , i gruppi per i diritti digitali avevano avvertito che rischiava di avere un effetto dissuasivo sulle piattaforme online: denunce ambigue sulla “disinformazione”, senza un’adeguata trasparenza su chi sta facendo le affermazioni e su cosa è in questione, rischiano solo di mettere il bavaglio ai social network non sulla propaganda terroristica, ma su ogni tematica controversa e su questioni valide e legittime. Le esternazioni Breton sembrano dar ragione a questi timori: chi mal comincia è già a metà dell’opera.