Covid-19 e over 90: il mistero dei ricoveri in terapia intensiva

Covid-19 e over 90: il mistero dei ricoveri in terapia intensiva

Perché gli over 90, nonostante l’elevato tasso di mortalità per Covid-19, sono raramente ricoverati in terapia intensiva.

Il Covid-19 continua a rappresentare una sfida globale, ma uno degli aspetti più enigmatici riguarda il mistero degli over 90. Nonostante l’elevato tasso di mortalità registrato in questa fascia d’età, il numero di ricoveri in terapia intensiva resta sorprendentemente basso.

Secondo il virologo dell’Università del Salento come riportato dall’ANSA, questo fenomeno merita un’attenta riflessione, in quanto potrebbe rivelare nuove informazioni sulla gestione clinica del virus.

Covid

I dati: ricoveri e mortalità tra gli over 90

Le ultime settimane hanno mostrato un aumento significativo dei decessi tra le persone di età superiore ai 90 anni. Oltre l’80% dei deceduti appartiene a questa categoria, ma il numero di ricoveri in terapia intensiva è quasi inesistente.

Infatti, il tasso di ricovero in terapia intensiva per questa fascia di età è di solo 1 per un milione di abitanti, come evidenziato dal monitoraggio settimanale dell’Istituto Superiore di Sanità e del Ministero della Salute.

Nonostante ciò, i ricoveri in reparti ordinari sono cresciuti notevolmente. Dal 6 maggio al 29 luglio, si è assistito a un incremento da 13 a 173 ricoveri per milione di abitanti. Tuttavia, il tasso di mortalità è passato da 1 a 29 per milione di abitanti nello stesso periodo, suggerendo che molti anziani muoiono nonostante non presentino sintomi così gravi da richiedere il ricovero in terapia intensiva.

L’opinione del virologo: perché non vengono ricoverati in terapia intensiva?

Secondo il virologo, la risposta a questo mistero risiede nella natura del decorso della malattia tra gli ultranovantenni. Molti di loro sviluppano forme moderate di Covid-19, che non provocano un deterioramento rapido dei parametri vitali, come la saturazione dell’ossigeno o la presenza di tromboembolie, che normalmente richiederebbero un intervento in terapia intensiva.

Tuttavia, il fatto che questi pazienti non finiscano in rianimazione non significa che siano al sicuro. Il virologo sottolinea che è possibile predire l’evoluzione critica della malattia utilizzando test specifici, come quelli basati sui biomarcatori suPar.

Questi test, sebbene disponibili, non sono comunemente impiegati nella pratica clinica. Attraverso l’uso di tali strumenti, sarebbe possibile identificare precocemente i pazienti a rischio e migliorare così la gestione clinica, riducendo la mortalità tra i più vulnerabili.