Delitto di Perugia, Rudy Guede è un uomo libero

Delitto di Perugia, Rudy Guede è un uomo libero

L’ivoriano è tornato nei pressi della casa in via della Pergola dove fu uccisa la studentessa inglese Meredith.

“Qui a Perugia ho cercato di soccorrere una ragazza che poi è morta”.

Sono le parole di Rudy Guede che, per la prima volta dopo 16 anni, è tornato nei pressi della casa in via della Pergola, dove fu uccisa la studentessa inglese Meredith Kercher.

Dopo la scelta del rito abbreviato, l’ivoriano è stato condannato a 16 anni per violenza sessuale e concorso in omicidio. Dopo 13 anni in carcere, ora è un uomo libero, vive a Viterbo e continua a professarsi innocente: “La pena che dovevo scontare in nome della legge si è conclusa, ora mi resta quella segnata dal giudizio degli sconosciuti, dalle occhiate sghembe al mio passaggio”.

Ribaltare l’ombra negativa.

Rudy desidera trasformare l’ombra negativa che lo ha perseguitato per anni. Ha scritto un libro con Pierluigi Vito intitolato “Il beneficio del dubbio” proprio per questo motivo.

Ha trascorso tredici anni in prigione, tra Perugia e Viterbo, e afferma che questa esperienza lo ha cambiato. Mentre era in carcere, ha conseguito il diploma e successivamente si è laureato. Questi tredici anni sono stati caratterizzati da sofferenza e ripresa.

Ancora porta i segni sul suo corpo, come una cicatrice sull’avambraccio sinistro. “Nei primi giorni di detenzione in Germania, sono stato tenuto isolato per tre giorni in una cella da solo. Quando mi hanno fatto uscire, ho chiesto una lametta da barba e mi sono tagliato. Sono caduto a terra e sono stato soccorso”, racconta.

Dalla Germania, dove si era rifugiato dopo la morte di Meredith, viene trasferito in Italia. “Il momento più brutto è stato quando il mio compagno Roberto si è tolto la vita. Stavo tornando in cella, ho aperto lo spioncino e ho visto i suoi piedi penzolare. Si era impiccato con il mio scaldacollo. Ho rivisto ancora una volta la morte da vicino”.

“In passato sognavo di stare con i miei amici durante la notte”

Una volta è stato picchiato dai suoi compagni di cella: “Mi hanno costretto a pulire la stanza, ho detto di no e mi hanno colpito all’occhio sinistro”. Mostra la cicatrice. Poi ricorda i momenti in cui piangeva da solo in cella. Gli viene chiesto di descrivere uno di questi momenti e lui rimane vago: “Piangevo senza farmi vedere”. Spesso parla utilizzando figure retoriche, come accade ora: “La solitudine per me è rappresentata dalla signora mestizia con le sue gelide mani pungenti”. Ricorda gli incubi notturni: “Quante volte mi sono svegliato nel cuore della notte, ingannato dal sogno di essere libero, di stare con i miei amici, con la mia famiglia. In quei momenti, l’unico modo per reagire era aggrapparsi alle ali dei ricordi e volare ai tempi dell’infanzia”.

Sedici anni dopo l’omicidio di Meredith Kercher, l’unico condannato, Rudy Guede, parla dopo essere stato rilasciato nel novembre del 2021 dopo aver scontato 16 anni di prigione.

Cosa accadde quella notte del 2007

In un’intervista al Corriere della Sera, il 36enne ivoriano insiste sul fatto di essere estraneo ai fatti. “L’ho detto quando credevano che mentissi per evitare la condanna, lo ripeto più che mai adesso che ho finito di pagare il mio debito con la giustizia: io non ho ucciso Meredith”, afferma. “Ero nella casa, chi lo nega? Le mie tracce erano sul luogo del delitto, certo. Non stavo fermo in un angolo. Ero con Meredith, ci siamo scambiati affetto, abbiamo avuto un incontro sessuale, sono andato in bagno, ho cercato di fermare il sangue che le usciva dal collo”, aggiunge. “È ovvio che ci fossero le mie tracce in giro.

La questione è che è stato trovato il mio DNA. DNA, non sperma. Come ho sempre detto, stavamo per avere un rapporto sessuale, ma ci siamo fermati perché non avevamo preservativi. Eravamo due adulti consenzienti”, continua Guede. Ha scritto anche un libro autobiografico intitolato “Il beneficio del dubbio, la mia storia”, che tocca anche l’omicidio di Kercher.

In particolare, Guede sottolinea che “nelle mie sentenze c’è scritto: in concorso con Amanda Knox e Raffaele Sollecito, e nessuno dei giudici mi considera l’autore materiale del delitto.

Poi loro due vengono assolti. Quindi chiedo: con chi ho agito in concorso? Hanno respinto la revisione del mio processo, ma è una contraddizione logica. La giustizia italiana dice che ho commesso un crimine con due persone specifiche, ma non come autore materiale; loro escono di scena, quindi la prigione è per una persona di cui non si capisce di cosa sia colpevole e con chi. Un condannato impossibile. O forse il condannato ideale: il nero senza famiglia, senza spalle coperte, senza un soldo”.

Inoltre, riguardo a Knox e Sollecito, specifica che “hanno detto così tante bugie su di me che non ha più senso dar loro attenzione. La mia coscienza è tranquilla anche nei loro confronti. Sì, sono stato in prigione per tutti questi anni, ma la mia mente era libera, pulita”.

Guede ammette di non perdonarsi di essere scappato. “La paura ha preso il sopravvento e sono fuggito come un codardo, lasciando forse Mez ancora viva. Non smetterò mai di pentirmene. Ma avevo 20 anni e davanti a me c’era una ragazza agonizzante, l’ho aiutata, ma poi la mia mente è andata in tilt. Forse sarebbe morta comunque, ma il fatto di non aver chiesto aiuto è la mia grande colpa.

La vita di Mez stava svanendo tra spasmi. Gli asciugamani non bastavano a fermare il sangue. Sono uscito dal bagno dopo aver sentito un grido forte nonostante avessi le cuffie con la musica alta; nell’oscurità avevo visto uno sconosciuto con un coltello in mano. “Andiamo via, c’è un nero”, aveva detto ad Amanda. Improvvisamente, il mio cervello ha ceduto.

Non avevo fatto nulla, ma chi mi avrebbe creduto? E così, preso dal panico, ho commesso errori uno dopo l’altro. Il mio comportamento è criticabile, è vero. Ma questo non fa di me un assassino”, conclude Guede.

Argomenti