Costretta a prostituirsi e uccisa, ma “poteva essere salvata”: servizi sociali sotto accusa

Costretta a prostituirsi e uccisa, ma “poteva essere salvata”: servizi sociali sotto accusa

La morte di Gloria Pompili è una tragedia che poteva essere evitata: l’assistente sociale viene accusata di omessa denuncia.

Finisce a processo l’assistente sociale di Frosinone, per non aver segnalato la situazione di pericolo in cui si trovava Gloria Pompili, la 23enne che fu uccisa a bastonate nella notte del 24 agosto 2017, davanti ai suoi figli. Dopo anni di abusi, la giovane madre aveva solo cercato di ribellarsi ai suoi aguzzini, incontrando così la morte.

La brutale morte di Gloria Pompili

Gloria Pompili, una giovane madre di 23 anni, è stata brutalmente uccisa a bastonate la notte del 24 agosto 2017, davanti ai suoi figli. Il decesso della donna è avvenuto per essersi ribellata contro coloro che la costringevano a prostituirsi. Per il delitto della ragazza, la zia Loide Del Prete e il suo compagno Saad Mohamed Elesh Salem sono stati condannati in via definitiva a vent’anni di carcere per omicidio volontario aggravato.

La sentenza ha evidenziato la gravità dei reati di maltrattamento in famiglia e sfruttamento della prostituzione. La madre e il fratello di Gloria – rappresentati dagli avvocati Luigi Tozzi e Francesca Campagiorni – si sono costituiti parte civile nel processo. La famiglia sostiene che se la 23enne fosse stata aiutata in tempo, avrebbe potuto essere salvata.

Il processo dell’assistente sociale

L’assistente sociale del Comune di Frosinone, incaricata di occuparsi della situazione familiare di Gloria Pompili, finisce a processo con l’accusa di omessa denuncia di incaricato di pubblico servizio. Secondo quanto emerso, nonostante fosse a conoscenza della grave situazione in cui la donna viveva, non ha agito per proteggerla.

Una vicina di casa di Gloria, infatti, aveva allertato i servizi sociali riferendo che i bambini erano stati appesi con una cesta al balcone. Intanto, la madre era costretta a prostituirsi in casa. A questa dichiarazione, l’assistente sociale rispose: “Fai una foto e portamela”. Questa presunta inerzia è al centro del processo, con l’accusa che l’immobilismo abbia contribuito a non prevenire l’omicidio.