Il gender pay, cause e conseguenze

Il gender pay, cause e conseguenze

La piena parità di genere a livello mondiale rimane un obbiettivo molto lontano.

I dati del Global Gender Gap Report del World Economic Forum certificano che, mantenendo il tasso di crescita attuale, serviranno 132 anni per raggiungere la piena parità di genere a livello mondiale.
L’obiettivo è davvero molto lontano e lo diventa ancora di più se si considera che l’indice è cresciuto di meno di un punto percentuale in un decennio.


Ogni anno infatti i tecnici del World Economic Forum analizzano i dati raccolti in 146 paesi di tutti i continenti con riferimento a 4 macro aree – salute e sopravvivenza, partecipazione all’educazione, partecipazione economica e partecipazione politica – e, sulla base dei risultati, determinano l’indice che misura la percentuale di riduzione del gender gap.


L’Italia è 63˚ in classifica, con un tasso di parità di genere del 72% e un risultato decisamente inferiore alla media europea, dove le prime posizioni sono occupate dai paesi scandinavi e il nostro paese si colloca in bassa classifica: 25˚ su 35, e in calo rispetto al 2021.

Il dato italiano è dovuto principalmente alla scarsa partecipazione delle donne all’economia e alla politica: il tasso di occupazione femminile è il più basso d’Europa (63% a fronte di una media europea del 72%), l’accesso alle risorse finanziarie è limitato e la partecipazione politica ancora non soddisfa. Permangono poi innegabili barriere culturali e certamente la pandemia, la guerra, l’aumento dei prezzi e l’innalzamento dei tassi non operano a favore di un miglioramento della condizione femminile.

Ma, leggendo i dati, emerge un altro aspetto tutt’altro che trascurabile: i risultati, diciamocelo, abbastanza sconfortanti sono anche legati al tasso di fertilità, all’età media della popolazione e all’età media del parto; insomma, la scelta di diventare madre continua a impattare sulla carriera professionale e sull’indipendenza economica.

Gender pay


Considerato che i carichi di cura familiare gravano in gran parte sulle donne (21 ore settimanali rispetto alle 9 degli uomini), queste ultime, laddove decidano di diventare madri, sono spesso obbligate a scegliere tra carriera e famiglia, stante anche la carenza di servizi di assistenza alla genitorialità e l’insufficienza delle politiche parentali. Chiaro allora che – altro dato – il divario salariale tra donne con o senza figli è ancora più ampio di quello fra uomini e donne (circa 30 punti percentuali).

A queste considerazioni si aggiunga che la segregazione occupazionale, problema questo non solo italiano, è ancora forte: nei settori STEM, in cui le retribuzioni sono maggiori, le donne continuano a essere sottorappresentate: in tutta Europa soltanto il 16% delle ragazze sceglie di studiare materie scientifiche all’Università e l’Italia è all’11˚ posto in classifica.


Tutto da buttare allora? Niente affatto. Specie negli ultimi anni, la legislazione, comunitaria e nazionale, si è fatta più incisiva e sempre più imprese, quantomeno medio grandi, adottano best practice volte a favorire la conciliazione vita- lavoro e non solo, ma è chiaro che ogni azione positiva, per essere fruttuosa, non può prescindere dal cambiamento culturale, cosicché, per dirla con le parole dell’ex Ministra per le Pari Opportunità, Elena Bonetti, “la riunione dalle sei di sera non sia più un problema solo delle donne”.


Forse in questo senso può essere utile riflettere sul fatto che la questione delle pari opportunità, non è, o non è solo, una questione identitaria. Le donne rappresentano la metà delle risorse umane del pianeta, per cui svilupparne le potenzialità e consentire loro il pieno accesso a un mercato del lavoro in cui siano protagoniste alle pari va a beneficio di tutti, anche del PIL.