Ubaldo Livolsi: “Dopo il Pnrr servono regole stabili e orizzonti pluriennali, non strumenti fiscali riscritti ogni anno”.
La legge di Bilancio continua il suo percorso parlamentare tra emendamenti, negoziati nella maggioranza e tensioni con l’opposizione. Una manovra da poco più di 18 miliardi che si configura come una “coperta corta”, incapace di rispondere a tutte le richieste che si accumulano: dal taglio dell’Irpef alla nuova rottamazione delle cartelle, dall’aumento dell’età pensionabile alla stretta sugli affitti brevi, fino alle proposte di condono edilizio. Sullo sfondo, l’appello del viceministro Maurizio Leo a mantenere i conti pubblici in ordine.
È l’analisi di Ubaldo Livolsi, professore di Corporate Finance e fondatore della Livolsi & Partners S.p.A., che sposta però l’attenzione su un tema cruciale e meno dibattuto: il destino degli incentivi alle imprese e la loro incidenza sulla competitività del sistema Italia.
Il nodo degli incentivi: dall’Ace al super ammortamento
“La vera questione – quella che incide sulla competitività del Paese – non è nel duello quotidiano sulle misure-bandiera, ma nel destino degli incentivi alle imprese”, spiega Livolsi. Dopo l’abolizione dell’Ace, lo strumento che premiava la capitalizzazione delle aziende, le imprese hanno attraversato la stagione degli incentivi di Transizione 4.0 e 5.0 basati sui crediti d’imposta.
È poi arrivata l’Ires premiale per chi assumeva e investiva: utile, ma durata solo un anno. Per il 2026 è stato proposto il passaggio dai crediti alle deduzioni, con il ritorno del super ammortamento, anch’esso però concepito come misura annuale.
“Il risultato è l’instabilità, che per un’azienda vale quasi quanto un costo aggiuntivo”, sottolinea il professore. “Gli incentivi residui del 2025 si sono esauriti, creando un vuoto normativo mentre la produzione rallenta”.

Transizione 5.0: dalle promesse al ridimensionamento
Particolarmente emblematico è il caso della nuova Transizione 5.0. Nata con una dotazione di 6,3 miliardi e focalizzata sull’efficienza energetica, dopo un avvio stentato è stata ridimensionata a 2,5 miliardi finanziati dal Pnrr. Gli altri fondi sono stati spostati su Industria 4.0, ma assorbiti rapidamente, anche per coprire vecchi incentivi rimasti scoperti.
“È una questione capitale che, insieme alla politica fiscale, può fare la differenza tra stagnazione e ripresa”, avverte Livolsi. Un dossier che riguarda da vicino il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti e il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, impegnati da mesi a trovare un’intesa sul capitolo decisivo delle garanzie statali ai prestiti alle imprese.
Il Pnrr finisce: e dopo?
La fase espansiva del Pnrr sta volgendo al termine. Secondo le stime del Centro Studi di Confindustria, la spinta del Piano ha contribuito per circa +0,8 punti di Pil nel 2025 e +0,6 nel 2026. Ma senza quella linfa straordinaria, con una crescita attesa tra lo 0,5 e lo 0,8% secondo le previsioni del Fmi e una produttività ferma, l’Italia rischia di tornare sulla traiettoria degli anni Duemila: crescita modesta, investimenti frenati, competitività compressa.
“Il tema degli incentivi non è una voce accessoria, ma la condizione necessaria per sostenere un sistema produttivo che deve investire in tecnologie digitali, automazione, efficienza energetica, capitale umano e formazione tecnica”, conclude Livolsi. “Le imprese italiane – molte delle quali campioni globali nei loro settori – non chiedono assistenza: chiedono regole stabili, orizzonti pluriennali, strumenti fiscali non riscritti ogni dodici mesi”.
Una richiesta che suona come un monito per chi si appresta a scrivere la prossima fase della politica economica del Paese, quando la spinta del Pnrr sarà solo un ricordo e servirà una strategia di lungo periodo per mantenere competitive le imprese italiane sui mercati globali.