Il punto di vista di una ragazza GenZ sulle parole della sorella di Giulia Cecchettin, sul patriarcato e sulla violenza di genere.
“I «mostri» non sono malati, sono figli sani del patriarcato”. Da quando ha pronunciato queste parole, Elena Cecchettin ha acceso la miccia per un dibattito che sta coinvolgendo tutti, e che rischia tuttavia di essere già derubricato come scontro ideologico o partitico, diventando uno dei tanti conflitti tra le solite due fazioni, inconciliabili e contrapposte. Questo vuole allora essere un appello. Impegniamoci affinchè la discussione non si smorzi con questa facilità: perchè nelle parole di quella ragazza, indipendentemente dai nostri orientamenti, ci siamo dentro tutti.
Quello che afferma la sorella di Giulia Cecchettin, la 22enne uccisa dall’ex fidanzato Filippo Turetta perché lui non voleva accettare la fine della loro relazione, è un concetto molto chiaro. Se il caso di Giulia non è isolato o straordinario – come sappiamo tutti benissimo (il numero dei femminicidi è sempre allarmante e stabile, così come la violenza sulle donne è notoriamente diffusa) – allora non possiamo continuare a definire i colpevoli come creature disumane e, appunto, fuori dall’ordinario.
Dovremmo invece renderci conto che si tratta di un fenomeno strutturale, che poggia su qualcosa che evidentemente nel nostro ordinamento sociale c’è e che permette, coltiva e alimenta tutta una serie di comportamenti (che vedono nell’omicidio solo il loro punto più estremo), i quali mettono l’uomo nella posizione di pensare di essere superiore alla donna, al punto da poter decidere sul suo corpo, quando non direttamente sulla sua vita o morte. E quel qualcosa è il patriarcato – non più inteso in senso antropologico stretto come “il controllo esclusivo dell’autorità domestica, pubblica e politica da parte dei maschi più anziani del gruppo” (definizione dell’Enciclopedia Treccani), bensì come il più sottile insieme di strutture e pratiche sociali che favoriscono il potere e il privilegio maschile.
Il ragionamento appare molto limpido. Stupisce (o forse no) l’indignazione che molte persone stanno provando davanti alle parole della Cecchettin. Uomini, e anche donne, che si sentono feriti nell’orgoglio, che ci tengono a sottolineare di “non fare di tutta l’erba un fascio”, che loro “non sono così” (il che comunque non toglie che il problema della violenza di genere esista) e che poi “chi è questa ragazza (una donna!), che viene ad additarmi e osa scomodare la mia coscienza, per giunta truccata in un modo che non approvo e vestita anche peggio?”. Ecco appunto. Il patriarcato ha tessuto per decenni in modo così subdolo la sua ragnatela, al punto che tutti ne siamo intrappolati, senza rendercene conto.
Dal punto di vista di una giovane ragazza quale è chi scrive, in Italia, nel 2023, ne siamo dentro con tutte le scarpe. Lo siamo quando i nostri padri tornano a casa e non pensano che sia un loro compito cucinare o pulire; lo siamo quando dicono alle nostre madri e a noi figlie “a questo ci penso io, che tu non capisci queste cose”; lo siamo quando le nostre nonne ci riprendono perché diciamo le parolacce e “le signorine non si comportano così”.
Il patriarcato è tra di noi quando, parlando nella quotidianità, per dire che una persona è coraggiosa e forte, diciamo che “è cazzuta” o “ha le palle”, perché qualsiasi attributo femminile sarebbe diminutivo o dispregiativo. È tra di noi quando sogniamo il principe azzurro che ci venga a salvare, e quando arriva siamo accondiscendenti della sua gelosia o del suo controllo, perché in fondo ci sentiamo un po’ in debito. È tra di noi anche quando uno sportivo non performa più come prima e la colpa è senza alcun dubbio della sua fidanzata, che non ha demeriti particolari se non quello di essere donna.
Patriarcato e violenza di genere è quando abbiamo paura di camminare per strada da sole, è quando lo diciamo e ci sentiamo dare delle esagerate o delle nazifemministe che non sanno accettare “un complimento” (non richiesto e ovviamente, in quanto donne, rivolto al nostro corpo). È quando ci violentano ed in fondo è un po’ colpa nostra, “troppo ingenue”, “troppo svestite”,”troppo socievoli”. È quando abusano di noi, noi denunciamo con i nostri tempi e modi, ma abbiamo “aspettato ambiguamente troppo” o “vogliamo solo i soldi”, perché non possiamo essere nient’altro che prostitute o arrampicatrici sociali. È quando ci uccidono, però “nessuno pensa alla sofferenza di quel ragazzo” o siamo state ancora una volta “troppo disponibili”, “troppo ingenue”.
Ovviamente, se chi scrive può fare questa lista, è perchè anni di studi, attivismo e lotte hanno in parte smascherato il fenomeno, e di fatti oggi le favole finiscono in un altro modo e le donne dicono anche qualche parolaccia. Ma vengono ancora sminuite, picchiate e uccise. E se così tante persone rifiutano l’evidenza, allora bisogna continuare a lavorarci.
Se al posto che tirarci fuori ad uno ad uno da questa situazione alzando le mani o nascondendoci dietro la scusa delle ideologie e delle fazioni politiche, provassimo invece a mettere da parte l’orgoglio ferito e a mettere seriamente in discussione il modo in cui tutti pensiamo e agiamo ogni giorno, forse smetteremmo di essere complici (e vittime) di tale sistema. Forse potremmo davvero prendere coscienza di un problema lampante della nostra società e potremmo provare ad unire le forze per smantellarlo dalle basi. E allora sì che bruceremmo tutto.