Omicidio Yara Gambirasio-Bossetti: il clamoroso dubbio delle telecamere

Omicidio Yara Gambirasio-Bossetti: il clamoroso dubbio delle telecamere

Come le telecamere avrebbero potuto cambiare il corso delle indagini nel caso di Yara Gambirasio, i dettagli.

La serie tv di Netflix, sta facendo rivivere la tragedia di Yara Gambirasio, a distanza di 14 anni, riaccende emozioni intense e riflessioni sulle indagini che seguirono la sua scomparsa, con Bossetti al centro dell’attenzione.

La sera del 26 novembre 2010, Yara, una tredicenne di Brembate di Sopra, scompare senza lasciare tracce. L’Italia era ancora scossa dal caso di Sarah Scazzi, e la pressione mediatica fu immediata. Le indagini iniziali si concentrarono attorno alla palestra di Brembate, dove Yara era stata vista l’ultima volta.

In queste prime fasi, gli investigatori si accorsero di un problema significativo: le telecamere di sorveglianza poste all’esterno dell’impianto sportivo erano fuori uso. Un fulmine durante un temporale estivo, avvenuto quattro mesi prima, le aveva danneggiate, e da allora non erano state riparate. Questa scoperta rappresentò un enorme ostacolo per le indagini, privando le forze dell’ordine di una fonte cruciale di informazioni che avrebbe potuto riprendere il rapitore di Yara.

Massimo Bossetti

L’impatto delle telecamere di sorveglianza

La mancanza di immagini di sorveglianza complica enormemente il lavoro degli investigatori. Fin da subito, le forze dell’ordine si trovano a dover fare affidamento su testimonianze e altri metodi investigativi meno diretti. Le ricerche nei giorni successivi alla scomparsa di Yara si basano principalmente su segnalazioni confuse e spesso contraddittorie.

Il super testimone all’epoca affermò di aver visto Yara parlare con due uomini vicino a un furgone, ma la sua testimonianza venne successivamente considerata poco attendibile. Le forze dell’ordine utilizzarono anche cani molecolari per tracciare i movimenti di Yara, ma i risultati furono incoerenti: uno dei cani si diresse verso un cantiere a Mapello, mentre un altro prese una direzione completamente opposta, creando ulteriore confusione.

L’assenza di immagini dalle telecamere di sorveglianza significava anche che ogni potenziale sospetto doveva essere investigato con metodi tradizionali, rallentando notevolmente il progresso delle indagini.

Questo fu particolarmente evidente con il caso di Mohamed Fikri, un piastrellista marocchino che lavorava al cantiere indicato da uno dei cani molecolari. Fikri fu arrestato il 4 dicembre 2010, otto giorni dopo la scomparsa di Yara, a causa di una telefonata intercettata e male interpretata. La traduzione errata portò gli investigatori a credere che Fikri stesse confessando l’omicidio, ma fu rilasciato dopo due giorni quando la traduzione corretta venne alla luce. Come riportato da liberoquotidiano.it

Un’indagine complicata

La mancanza di funzionamento delle telecamere di sorveglianza all’esterno della palestra di Brembate rappresentò una perdita cruciale per le indagini. Senza queste prove visive, le forze dell’ordine furono costrette a fare affidamento su testimonianze spesso inaffidabili e su metodi investigativi tradizionali, che rallentarono notevolmente il progresso delle indagini.

Questa lacuna evidenziò l’importanza fondamentale della tecnologia nella risoluzione dei casi di cronaca nera e il bisogno di un’adeguata manutenzione delle infrastrutture di sorveglianza. La tragedia di Yara Gambirasio rimane un caso emblematico delle difficoltà e delle complessità delle indagini. Dimostrando come anche piccoli dettagli, come la manutenzione delle telecamere, possano avere un impatto significativo sulla ricerca della verità.

La docuserie di Netflix, “Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio”, riaccende il dibattito e sottolinea le numerose problematiche delle indagini.

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