Un nuovo esame del sangue utilizza l’intelligenza artificiale per diagnosticare il Parkinson sette anni prima dei sintomi.
La diagnosi precoce del morbo di Parkinson potrebbe essere rivoluzionata grazie a un innovativo esame del sangue sviluppato da un team di ricercatori internazionali.
Questo test, come riportato da Adnkronos.com, utilizza l’intelligenza artificiale per analizzare otto specifici biomarcatori nel sangue ed ha mostrato un’accuratezza del 100%.
Un passo decisivo per la diagnosi precoce del Parkinson
L’esame del sangue sviluppato dagli scienziati dell’University College London e dell’University Medical Center Goettingen rappresenta una svolta significativa.
Utilizzando tecniche avanzate di machine learning, i ricercatori hanno analizzato un pannello di otto biomarcatori nel sangue, le cui concentrazioni risultano alterate nei pazienti con Parkinson.
Questo approccio ha permesso di diagnosticare la malattia con un’accuratezza del 100%. Il morbo di Parkinson è una malattia neurodegenerativa progressiva.
La patologia è causata dalla morte delle cellule nervose nella substantia nigra, una regione del cervello responsabile del controllo del movimento.
La morte di queste cellule porta a una riduzione della dopamina, un neurotrasmettitore cruciale, provocando sintomi come tremori, rigidità muscolare e problemi di equilibrio.
Le implicazioni per il futuro
Il team ha testato l’efficacia del loro metodo su un gruppo di 72 pazienti affetti da disturbo del comportamento del sonno REM.
Si tratta di una condizione che comporta l’azione fisica dei sogni e che è spesso precursore di malattie neurodegenerative come il Parkinson.
Circa il 75-80% delle persone con questo disturbo sviluppano una sinucleinopatia, inclusa la malattia di Parkinson.
I risultati sono stati impressionanti: il test ha previsto correttamente che 16 pazienti avrebbero sviluppato il Parkinson entro sette anni.
“Determinando otto proteine nel sangue, possiamo identificare potenziali pazienti affetti da Parkinson con anni di anticipo,” ha spiegato Michael Bartl, co-autore dello studio.
In conclusione, la grande implicazione per il futuro è: “Che le terapie farmacologiche potrebbero essere somministrate in una fase precedente, il che potrebbe rallentare la progressione della malattia o addirittura impedirne la comparsa.”