La Cassazione ha stabilito che chi beve troppi caffè sul posto di lavoro può rischiare di perdere il lavoro: cosa si legge nella sentenza.
Una recente sentenza della Cassazione sancisce che abusare eccessivamente delle pause caffè può costare il posto di lavoro, soprattutto se, a tale comportamento, si affiancano anche altri precedenti disciplinari. Scopriamo, dunque, insieme cosa può accadere.
Troppi caffè sul lavoro possono costarti il posto di lavoro
La Corte di Cassazione ha – di recente – emesso una sentenza, destinata a far discutere, nella quale è ribadito il fatto che chi abusa della pausa caffè può rischiare il licenziamento. Il caso riguarda un operatore ecologico, già destinatario in passato di richiami ufficiali da parte dell’azienda per varie inadempienze.
L’elemento scatenante del provvedimento espulsivo è stato l’esito di un’indagine condotta da un investigatore privato, dalla quale è emerso che il lavoratore trascorreva parte del proprio turno passando da un bar all’altro per consumare caffè, sottraendosi – così – ai propri doveri.

Il datore di lavoro, insospettito da comportamenti poco trasparenti e preoccupato per l’efficienza del servizio, ha deciso di ricorrere a un’agenzia investigativa.
La Cassazione, dunque, ha riconosciuto la legittimità di tale scelta, sottolineando che l’impiego di investigatori privati è consentito in presenza di fondati sospetti legati, in sostanza, a condotte illecite e che tale attività non viola i limiti imposti dallo Statuto dei Lavoratori, purché non si traduca in un controllo diretto e continuativo sull’attività lavorativa quotidiana.
La tutela del patrimonio aziendale comprende anche l’immagine
Secondo la Cassazione, i controlli aziendali sono giustificabili in relazione alla tutela materiale dei beni, ma anche per salvaguardare l’immagine dell’impresa stessa.
In quest’ottica, un comportamento scorretto da parte di un dipendente, reiterato nel corso del tempo, può arrecare un vero e proprio danno reputazionale e gestionale per il datore di lavoro.
La sentenza ha richiamato alcuni precedenti giurisprudenziali secondo i quali l’impresa ha diritto a tutelarsi da condotte fraudolente o potenzialmente dannose, anche mediante strumenti esterni di verifica.
La Corte – in questo caso – ha ribadito che, dato il pregresso disciplinare del lavoratore e la documentata sottrazione agli obblighi contrattuali dello stesso, il licenziamento rappresenta una conseguenza che si allinea alla normativa vigente.