La storia dell’omicidio Bruno Caccia, il magistrato piemontese ucciso dalla mafia

La storia dell’omicidio Bruno Caccia, il magistrato piemontese ucciso dalla mafia

26 giugno 1983, Bruno Caccia venne ucciso dalla ‘ndrangheta. La sua colpa: essere stato un Procuratore troppo rigoroso e ligio al dovere.

La storia dell’Italia si intreccia purtroppo troppo spesso con le storie di tante persone che rimangono vittime delle organizzazioni criminali. Molte di queste sono onesti servitori della giustizia, uomini colpevoli solo della propria integrità morale e del proprio impegno meticoloso nel portare avanti il proprio lavoro. Tra le vicende di magistrati vittime di mafia, ce n’è una in particolare che per molti anni è risultata irrisolta, almeno in parte. Si tratta del caso Bruno Caccia: ripercorriamolo insieme.

Bruno Caccia: chi era

Classe 1917, Bruno Caccia è stato un Procuratore della Repubblica italiana. Originario di Cuneo e proveniente da una famiglia impiegata nella magistratura da decenni, Caccia si è distinto nel suo lavoro in particolare per le indagini condotte sul terrorismo durante gli “anni di piombo” e per quelle relative alla mafia nel nord Italia.

Diversi i processi ai gruppi terroristici delle Brigate Rosse e di Prima Linea, ma numerose anche le inchieste sull’operato dell’organizzazione criminale della ‘ndrangheta, originaria della Calabria, ma ben radicata in Piemonte.

Sono queste ultime probabilmente ad aver infastidito i capi mafiosi che poi hanno deciso di eliminarlo: come riportato da La Repubblica, Caccia era risultato “troppo meticoloso” nelle investigazioni sui rapporti tra la mafia operante nei casinò e diversi prestasoldi di Torino, così come in quelle sulla possibile corruzione all’interno dei centri carcerari, e ancora nell’indagine sull’omicidio di un usuraio affiliato alla ‘ndrangheta.

L’omicidio di Bruno Caccia

Era la sera del 26 giugno 1983, domenica, giorno delle elezioni. Bruno Caccia verso le 23.30 uscì di casa da solo per portare a spasso il cane: non aveva con sè la sua scorta, al quale aveva dato un giorno di riposo. A pochi passi dalla sua abitazione, in via Sommacampagna, ai piedi della collina torinese, una Fiat 128 gli si accostò e uno dei due uomini all’interno del veicolo gli sparò 17 colpi di pistola, lasciandolo senza vita.

Le indagini e le condanne

In un primo momento, gli investigatori pensarono che l’omicidio potesse essere ricondotto al gruppo delle Brigate Rosse: queste rivendicarono il crimine, ma si rivelò una falsità. Anche la strada del gruppo neofascista Nuclei Armati Rivoluzionari non portò da nessuna parte.

Fu un mafioso incarcerato, Francesco Miano, a dare la svolta decisiva alle indagini: decise infatti di collaborare, registrando di nascosto una sua conversazione con il boss ‘ndranghetista Domenico Belfiore, anch’egli in carcere. Belfiore rivelò che l’omicidio era stato opera dell’organizzazione criminale calabrese e che sarebbe stato causato dal fatto che “con il procuratore Caccia non ci si poteva parlare”.

Domenico Belfiore venne quindi condannato all’ergastolo nel 1992 come mandante dell’assassinio (è poi stato liberato, stando a quanto riporta Il Post, nel 2015 per motivi di salute). Altri esponenti della mafia vennero indagati, ma per anni non si scoprì nulla sull’identità dell’esecutore materiale del delitto.

Solo nel 2014, su richiesta dei figli di Caccia, vennero riaperte le indagini sul caso. I familiari sospettavano che la morte del padre fosse dovuta soprattutto all’indagine sul riciclaggio di soldi nel casinò, cosa che avrebbe coinvolto anche la mafia siciliana.

Non venne scoperto nulla di nuovo in tale direzione, ma venne trovato il nome di colui che aveva sparato a Bruno Caccia: si tratta di Rocco Schirripa, panettiere di origine calabrese insediatosi in Piemonte. Fu condannato anche lui all’ergastolo, nei tre gradi di giudizio.