Milan, a tutto Paolo Maldini: la carriera dello storico capitano rossonero vissuta tra i successi, le sconfitte, le gioie e i dolori di chi il Diavolo ce l’ha nel cuore.
Per chi lo ha sempre visto in TV o, nel migliore dei casi, dalle tribune di uno stadio Paolo Maldini è una specie di totem inavvicinabile. Una sorta di mito immortale, tanto grande e perfetto da apparire quasi astratto. Quando lo incontri di persona, scopri che è un mito per davvero, ma scopri anche che i miti, perlomeno quelli veri come Paolo, non sono così distanti da noi.
La carriera di Paolo Maldini: i primi passi… tra pali
Come noi, ad esempio, è stato un bambino; un bambino che coltivava un sogno, peraltro piuttosto comune: quello di diventare un calciatore. «Volevo diventare un grande portiere. Il giorno del provino al Milan mi chiesero in quale posizione fossi solito giocare. Ero indeciso su cosa rispondere, perché adoravo davvero fare il portiere; alla fine, scelsi di fare la partitella come giocatore di movimento». Parte dai ricordi d’infanzia Paolo Maldini per presentarsi, venerdì 18 maggio, al pubblico della rassegna che celebra vino e calcio organizzata dai Barolo Boys a Monforte d’Alba, piccolo comune della provincia di Cuneo immerso nei vigneti patrimonio mondiale dell’umanità.
Il racconto di Maldini, scandito dalle domande del giornalista Gigi Garanzini, è appassionato, con passaggi esclusivi, a tratti emozionante (non solo per i milanisti), mai fuori dalle righe o sgarbato. Insomma, nel pieno stile di Paolo, un campione di altri tempi. «Fu mio padre Cesare a intuire il mio talento. Come? Dalla postura che tenevo durante le partite. Ma il talento da solo non basta. Va allenato, così come bisogna allenarsi a essere uomini fuori dal campo». E Maldini lo ha fatto, soprattutto «grazie alla famiglia, che mi ha permesso di giocare ad altissimi livelli nella squadra della mia città e di non avvertire particolarmente la pressione legata al fatto che ero un “figlio d’arte”. Il Milan era anche la mia squadra del cuore? No, da bambino tifavo Juve (e giù applausi dei tifosi bianconeri presenti in platea, nda), ma solo perché nella Nazionale di quegli anni nove undicesimi erano giocatori juventini. In ogni caso, dopo il provino con il Milan nulla è più stato come prima». Come a dire: un piccolo errore di gioventù.
Se a livello umano è stata la famiglia a giocare un ruolo fondamentale, sul fronte sportivo sono stati i tanti allenatori che Paolo ha incontrato nella sua carriera a forgiarlo come campione. Da Liedholm che «mi ha insegnato che il calcio è un gioco», passando per Capello che è colui il quale «mi ha fatto diventare un vero calciatore», Zaccheroni e i meno fortunati Tabarez e Terim, fino ad arrivare a Carlo Ancelotti con cui «abbiamo riportato il Milan alla grandezza di un tempo». «Ho scordato qualcuno?», dice Paolo incalzato da Garanzini. «Sacchi, certo, ma allora devo citare anche mio padre. Forse volevo dimenticare Arrigo per la fatica che ci ha fatto fare (ride, nda): non avete idea di quanto fossero duri i suoi allenamenti. Ma quel lavoro ha dato frutti incredibili, di cui hanno beneficiato anche gli allenatori che sono arrivati sulla panchina del Milan dopo di lui».
Se l’opera degli allenatori rossoneri è stata efficace, il merito è sicuramente anche dei campioni che si sono succeduti in casacca milanista: «Su tutti Franco Baresi, una macchina da guerra, e Marco Van Basten, l’apoteosi della classe e dell’eleganza». Da questo mix sono scaturite vittorie straordinarie, rese ancora più straordinarie dalla grandezza degli avversari sconfitti: «Maradona è stato l’avversario più difficile di tutti, immarcabile: in un incontro, per tentare di fermarlo, gli diedi una serie di “botte” di cui poi mi sono vergognato. Pure il Ronaldo dell’Inter è stato un incubo, come del resto Platini: ho affrontato il francese solo un paio di volte ma era impressionante».
I trofei di Paolo Maldini
Tra le vittorie più emozionanti per Maldini ci sono sicuramente la Coppa dei Campioni del 1994, ricordata con una domanda appassionata dai tifosi del Milan club “Alba rossonera”, che il Milan conquistò battendo 4-0 il Barcellona di Cruijff: «Capello, nei giorni precedenti la finale, ci diceva che eravamo particolarmente in forma e che ce l’avremmo fatta: bluffava, non voleva che ci sentissimo sfavoriti per le assenze di Baresi e Costacurta». Sul podio anche la Champions League vinta a Manchester nel 2003 contro la Juve, «la vittoria che ci ha riportato ai massimi vertici dopo 9 anni» e la Champions vinta nel 2007 contro il Liverpool.
In mezzo non sono mancate le sconfitte, alcune brucianti, quasi inspiegabili, come quella di Instanbul del 2005 contro il Liverpool oppure la finale di Coppa del mondo persa dall’Italia contro il Brasile ai rigori. Inspiegabili ma non per Maldini: «Il calcio è un gioco e quando si gioca bisogna mettere in conto anche la sconfitta. Uno sportivo deve sapere vincere ma anche perdere. In Italia, purtroppo, manca questa cultura».
Paolo Maldini: un futuro da dirigente?
Vero. Ecco perché ci sarebbe bisogno di persone come Maldini in Federazione, ma l’ex numero 3 rossonero lascia intendere che i tempi non sono ancora maturi, «anche se sono sempre disponibile ad ascoltare». Tempi non maturi nemmeno per un ritorno al Milan: «Ho detto di no perché non c’è stato accordo sul ruolo: avrei dovuto sostanzialmente metterci la faccia e portare in società la mia immagine, senza però avere responsabilità specifiche e questo non mi può stare bene alla luce di quella che è stata la mia storia nel club».
Tra le delusioni Maldini, indirettamente, inserisce anche la contestazione (va ricordato, organizzata da un numero limitato di tifosi della Curva Sud) nel giorno del suo addio: «Subito ci rimasi male. Ma dopo poco, ripensandoci a mente fredda, sono stato contento perché non mi sono mai identificato in un ultrà».
Applausi. E poi si alza un coro: «Paolo alé, Paolo Maldini». Proprio come è successo per venticinque anni quando Paolo indossava la 3 rossonera.
Maldini e il Milan: una storia infinita, che prima o poi non potrà che ricominciare.
di Enrico Fonte