Il tribunale di Roma ha dato ragione a Roberto Saviano che non dovrà risarcire il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano.
L’ex direttore del Tg2 e attuale ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano aveva denunciato lo scrittore Roberto Saviano per un post del 2018. Secondo il Tribunale civile di Roma “non si dispone di alcun criterio per procedere a una liquidazione del danno lamentato”, dato che Sangiuliano si è “limitato ad alludere al danno alla propria immagine e reputazione“.
Secondo il ministro, le parole di Saviano avevano rovinato la sua reputazione e la sua carriera che però ha fatto un salto da direttore del Tg2 a ministro nell’attuale governo Meloni. Questo ha convinto la giudice a rigettare l’ipotesi di risarcimento.
Roberto Saviano ha scritto sui social: “Non dicevo il falso quando riconoscevo anche Nicola Cosentino tra i padrini politici di Gennaro Sangiuliano e tra gli artefici delle sue fortune. Giorgia Meloni non ha nulla da dire al riguardo? Temo che nessuno chiederà conto a Meloni della sua vicinanza politica a chi ha portato la camorra al governo, una vicinanza per la quale provo disgusto”.
Per la giudice non è diffamazione perché non è un fatto falso
Nell’ottobre 2018 Sangiuliano denunciò Saviano per diffamazione per un post su Facebook in cui lo definì “galoppino di Nicola Cosentino“, ex sottosegretario del governo Berlusconi recentemente condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, in quanto referente del clan camorristico dei Casalesi.
Il Tribunale di Roma ha dichiarato che non ci sono gli estremi per la diffamazione perché non si tratta di un fatto falso né vi è alcun danno subito dal ministro. La giudice ha basato la sentenza sull’articolo 21 della Costituzione che difende il diritto di critica. La critica di Saviano è stata “senz’altro sferzante” e i suoi “giudizi politici” sono stati “aspri e pungenti”, ma comunque parte “del diritto di libertà di manifestazione del pensiero”.
Per l’avvocato di Sangiuliano, sembra che Saviano “goda di un privilegio rispetto ad altri italiani”, ovvero usare termini che per altri sarebbero considerati diffamanti. Il risultato del processo, quindi è “infondato ed offensivo”, ha concluso Sica. “Per questo andremo in appello, sperando di trovare un giudice meno disponibile a spingere il diritto di critica fino alla definizione di galoppino”.