Il 28 giugno 1946 l’Assemblea Costituente elegge Enrico De Nicola capo provvisorio dello Stato, pochi giorni dopo il referendum costituzionale.
Settantacinque anni fa Enrico De Nicola veniva scelto come capo provvisorio dello Stato. Era infatti il 28 giugno 1946 quando l’Assemblea Costituente votò il navigato politico partenopeo alla carica istituzionale dell’ordinamento giuridico italiano a cui furono attribuite le funzioni di Capo dello Stato nel periodo intercorrente fra l’abolizione della monarchia a seguito del referendum del 2 giugno 1946 e l’entrata in vigore della nuova Costituzione repubblicana.
L’elezione di Enrico De Nicola
Dopo l’esito del referendum del 2 giugno, che abrogò la monarchia, Umberto II abdicò e lasciò l’Italia alla volta del Portogallo. A quel punto, all’Assemblea Costituente toccò il compito di scegliere una figura che assumesse le funzioni di Capo dello Stato.
I nomi forti erano quelli di Vittorio Emanuele Orlando (sostenuto dalla Democrazia Cristiana e dalle destre) e di Benedetto Croce (appoggiato dalle sinistre e dai partiti laici). L’impasse venne risolta solo grazie alla minuziosa opera diplomatica di Alcide De Gasperi, il quale sostenne Enrico De Nicola. E così, il 28 giugno, sull’ex presidente della Camera si raccolsero 396 voti su 501 votanti e 573 aventi diritto (69,1%).
Il discorso all’insediamento
Entrò in carica l’1 luglio e due settimane più tardi inviò all’Assemblea Costituente un messaggio rivolto all’unità nazionale:
“La grandezza morale di un popolo si misura dal coraggio con cui esso subisce le avversità della sorte, sopporta le sventure, affronta i pericoli, trasforma gli ostacoli in alimento di propositi e di azione, va incontro al suo incerto avvenire. La nostra volontà gareggerà con la nostra fede. E l’Italia – rigenerata dai dolori e fortificata dai sacrifici – riprenderà il suo cammino di ordinato progresso nel mondo, perché il suo genio è immortale. Ogni umiliazione inflitta al suo onore, alla sua indipendenza, alla sua unità provocherebbe non il crollo di una Nazione, ma il tramonto di una civiltà: se ne ricordino coloro che sono oggi gli arbitri dei suoi destini.
Se è vero che il popolo italiano partecipò a una guerra, che – come gli Alleati più volte riconobbero, nel periodo più acuto e più amaro delle ostilità – gli fu imposta contro i suoi sentimenti, le sue aspirazioni e i suoi interessi, non è men vero che esso diede un contributo efficace alla vittoria definitiva, sia con generose iniziative, sia con tutti i mezzi che gli furono richiesti, meritando il solenne riconoscimento – da chi aveva il diritto e l’autorità di tributarlo – dei preziosi servigi resi continuamente e con fermezza alla causa comune, nelle forze armate – in aria, sui mari, in terra e dietro le linee nemiche. La vera pace – disse un saggio – è quella delle anime. Non si costruisce un nuovo ordinamento internazionale, saldo e sicuro, sulle ingiustizie che non si dimenticano e sui rancori che ne sono l’inevitabile retaggio. La Costituzione della Repubblica italiana – che mi auguro sia approvata dall’Assemblea, col più largo suffragio, entro il termine ordinario preveduto dalla legge – sarà certamente degna delle nostre gloriose tradizioni giuridiche, assicurerà alle generazioni future un regime di sana e forte democrazia, nel quale i diritti dei cittadini e i poteri dello Stato siano egualmente garantiti, trarrà dal passato salutari insegnamenti, consacrerà per i rapporti economico-sociali i principi fondamentali, che la legislazione ordinaria – attribuendo al lavoro il posto che gli spetta nella produzione e nella distribuzione della ricchezza nazionale – dovrà in seguito svolgere e disciplinare.”.